Nel mondo antico l’idea dell’aldilà era generalmente molto più sviluppata e diffusa di quanto avvenga nella realtà odierna, così impregnata di materialismo e ateismo. Fin dalla preistoria i defunti venivano inumati assieme a oggetti che si riteneva gli sarebbero stati utili nella dimensione ‘altra’ che essi avrebbero dovuto esplorare.
Tale dimensione viene presentata in forme diverse a seconda delle differenti tradizioni e culture.
Per i Greci, ad esempio, l’aldilà è una realtà vaga, indistinta, che non presenta differenze interne di carattere etico legate al vissuto dei defunti. Per gli Egizi, invece, esistono differenti collocazioni delle anime a seconda del loro comportamento in vita, verificato attraverso la “pesatura del cuore”, che deve risultare non più pesante di una piuma se si vuole accedere alla felicità ultraterrena.
Un importante strumento spesso utilizzato dalle culture antiche sono i cosiddetti “libri dei morti”, di cui l’esempio più celebre arriva dalla civiltà egizia.
Il libro dei morti degli antichi Egizi (il titolo egizio tradotto letteralmente significa ‘libro per uscire al giorno’, o ‘libro per emergere alla luce’) è una raccolta di testi a carattere magico-religioso, intesi come istruzioni per percorrere correttamente il cammino dell’anima una volta che essa ha lasciato il corpo fisico.
Questa antologia veniva correntemente usata a partire dalla metà del secondo millennio a. C., ma i singoli brani erano diffusi già almeno mille anni prima, uniti in raccolte chiamate “testi delle piramidi e testi dei sarcofagi”. Infatti, le formule vennero reperite sulle pareti delle grandi piramidi e dei sarcofagi dei faraoni fin dalle prime dinastie. I testi dei libri dei morti, scritti in geroglifico ieratico (cioè ‘sacro’), erano accompagnati da disegni o vignette che raffiguravano le anime intente al loro cammino nell’aldilà.
Tale cammino è presentato come irto di difficoltà e pericoli: prima di giungere nell’adlilà, l’anima deve superare cancelli, percorrere caverne e sentieri faticosi.
Durante il suo percorso, può incontrare animali ostili al viaggio, di carattere fantastico, chimere e esseri ibridi, unioni di due nature diverse, ma anche rettili realmente esistenti, come serpenti e coccodrilli. Al termine del percorso avviene la suddetta pesatura del cuore, a cui sovrintende Osiride, divinità solare, ma anche Anubi, il dio psicopompo (letteralmente ‘che guida le anime’) dal corpo umano e testa di sciacallo.
Su un piatto della bilancia viene posto il cuore del defunto, sull’altro la piuma di Maat, dea della verità e della giustizia. Solo se il cuore non peserà più della piuma l’anima potrà accedere alla felicità dell’oltretomba.
Ecco alcune delle formule e delle invocazioni presenti nel libro dei morti degli Egizi:
“Fa’ che io possa raggiungere il cielo dell’Eternità nella dimora dei tuoi favoriti e che io sia unito agli spiriti augusti ed eccellenti della Necropoli, possa io uscire con essi per vedere le tue glorie al tuo sorgere, e alla sera quando ti unisci a tua Madre Nut.” – Qui lo spirito si rivolge a Osiride, il dio solare, chiedendone la protezione e la compagnia.
“Possa io non cadere sotto i loro coltelli, possa io non penetrare nei loro luoghi di tortura, che io non mi arresti nelle loro stanze di supplizio, che io non giunga nei loro luoghi di esecuzione, che io non cada nelle loro caldaie, che non vengano fatte a me le cose che sono in abominazione degli dei, poiché io sono un Principe nella Grande Sala, l’Osiride che ha traversato il luogo di purificazione.” – Qui l’anima, identificandosi in Osiride, intende scacciare i demoni pronti ad aggredirlo all’ingresso nell’aldilà.
“Questa formula sia pronunciata da un uomo che si è purificato con l’acqua di natron: egli potrà uscire al giorno dopo la sepoltura e potrà fare tutte le trasformazioni che il suo cuore vuole e potrà passare sul fuoco, in verità, infinite volte.” – Interessante il riferimento al natron, un sale a base di sodio che gli Egizi utilizzavano per la mummificazione e in genere per l’igiene personale.
“Che la mia bocca sia aperta da Ptah e che Ammon, Dio della mia città, disserri le pastoie della mia bocca da quando sono uscito dal ventre di mia madre. Venga a lui Thoth munito delle sue Parole Magiche e Atum disserri le pastoie messe da Seth, che é venuto contro di me. Atum si é opposto gettando le pastoie dei miei assalitori. Che la mia bocca possa venire aperta da Ptah con questo strumento di ferro, del quale si serve per aprire la bocca agli dei. E`la Barca della Sera che mi ha portato nella dimora del Dio grande in Heliopolis. Io sono contento nelle mie interiora e mi sono unito ai divini nocchieri. Io navigo nell’Oriente del cielo e mangio ciò che essi mangiano. Io vivo con ciò di cui essi vivono. Io mangio il pane nella dimora del Signore delle Offerte. Ciò che detesto sono le immondizie: che io non debba mai cibarmene!” – Qui lo spirito chiede l’aiuto di varie divinità contro il malvagio Seth. Oltre all’affascinante riferimento alla barca dei defunti, è importante la contrapposizione tra il cibo degli dei e l’immondizia, secondo una visione molto concreta dell’aldilà.
Formule per il viaggio oltremondano sono presenti nella maggioranza delle culture antiche.
Un altro esempio in questo senso è il Libro dei morti tibetano, o Bardo Thodol (‘Suprema liberazione’), che descrive le esperienze destinate allo spirito subito dopo la morte fisica, ovvero nel periodo tra la morte e la successiva incarnazione.
Nella tradizione del buddismo tibetano, cui appartiene questo antico testo, le formule dovevano essere recitate presso il corpo del morto, o del morente, finché questi era ancora mentalmente ricettivo, affinché lo spirito potesse evitare la rinascita fisica, sciogliendosi invece nel “nirvana”, la misteriosa dimensione spirituale in cui il dolore è scomparso.
I libri dei morti, che si perdono nel tempo arrivando fino all’origine della scrittura e quindi della storia, testimoniano quanto sia antica e radicata la fede in una sopravvivenza dello spirito umano al di là del corpo fisico. La loro valenza e particolare bellezza verrà ripresa anche nelle letterature moderne, per esempio nei romanzi di H. P. Lovecraft e Stephen King, per citare due famosi scrittori della narrativa fantastica.
Al di là dello sviluppo e della diffusione delle religioni storiche, monoteistiche e non, e delle più diverse forme di spiritualità, i libri dei morti restano tra le basi di tutta la cultura umana, a sostenere l’aspettativa di chi non intende ridurre l’uomo a pura espressione meccanicistica e lo considera invece il mirabile frutto di una creazione intelligente e amorevole.
Secondo la mitologia greca, Caronte (il significato del nome greco antico è “ferocia illuminata”) è il nocchiero dell’oltretomba di Greci, Etruschi e Romani, il traghettatore delle anime nell’Ade, figlio dell’Oscurità e della Notte. Trasportava le anime dei morti da una riva all’altra del fiume Acheronte (fiume dell’afflizione nella Divina Commedia), un ramo del fiume Stige (fiume dell’odio per Greci, Etruschi e Romani, citato nell’Eneide virgiliana) che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba dividendo il mondo dei vivi da quello dei morti.
Sono cinque, nella mitologia greca, i fiumi che scorrevano negli Inferi: il primo è lo Stige, da cui si dirama anche il Cocito (fiume dei lamenti), affluente dell’Acheronte insieme al Flegetonte (fiume del fuoco); allo Stige viene spesso attribuito il ruolo di spartiacque, sebbene altre credenze leghino questa funzione al Flegetonte e al Lete (fiume dell’oblio), quinto ed ultimo fiume dell’Ade.
Ignorato dai poeti greci Omero ed Esiodo, Caronte viene citato dal poeta latino Virgilio nel libro VI dell’Eneide:
«Caronte custodisce queste acque e il fiume e, orrendo nocchiero, a cui una larga canizie invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma, sordido pende dagli omeri il mantello annodato.» (vv. 298-301)
«Egli, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiaia, spinge la zattera con una pertica e governa le vele e trasporta i corpi sulla barca di colore ferrigno.» (vv.302-304)
Nel canto III dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri ritroviamo delle terzine che descrivono Caronte sotto diversi punti di vista:
– come vecchio e canuto:
« Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!» (vv.82-84)
– come nocchiero con la barba e gli occhi infuocati:
«Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.» (vv.97-99)
– come demonio severo, ordinato e sistematico:
«Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia» (vv.109-111)
Caronte traghettava le anime solo se i loro cadaveri avevano ricevuto i consueti onori funebri oppure, in base a un’altra versione, se disponevano di un obolo per pagare il viaggio. Chi non aveva ricevuto nulla era costretto a errare in eterno senza pace tra le nebbie del fiume o, secondo alcuni autori, per cento anni.
Il culto dell’obolo è antichissimo, come testimoniano vasi funerari attici del V e IV sec. a.C.. E nelle Rane del commediografo greco Aristofane, Caronte urla insulti contro la gente che lo attornia. Inoltre vi si legge: «Il parente più prossimo chiude gli occhi e la bocca del defunto, dopo avervi posto la moneta per Caronte.»
Nella Grecia antica era usanza introdurre una moneta sotto la lingua del cadavere prima della sepoltura. Secondo un’altra tradizione il prezzo era di due monete, poste sopra gli occhi del defunto. Non è da escludere che i greci siano stati influenzati dai costumi persiani, d’altronde l’usanza di munire i defunti di una moneta è riscontrata nella maggior parte delle civiltà antiche in varie parti del mondo.
Il rito greco si estese a Roma (prima usanza attestata al 405 a.C) e in diverse altre città e popolazioni dell’Italia centrale (Umbria ed Etruria). Talvolta le monete sono state ritrovate ormai disciolte, ma se ne coglie il verderame sulle mascelle o sui denti. Nel caso di inumazione, le monete potevano essere deposte:
- sulla bocca, per non far uscire l’anima del defunto e perché il morto non parlasse nel mondo dei vivi onde non turbare il loro sonno. Oppure dentro la bocca, e precisamente sotto la lingua;
- sopra la fronte: l’obolo pronto per la consegna, ben visibile per il rapido passaggio;
- a sinistra del cranio: mentre il lato destro era considerato attinente ai vivi, il lato sinistro era considerato un lato oscuro attinente ai morti;
- nella zona della testa;
- all’altezza del bacino, soprattutto nei paesi orientali;
- a metà o al centro della tomba: non dimentichiamo che leggeri movimenti tellurici possono aver spostato degli oggetti nelle varie tombe;
- ai piedi o fra i piedi dell’inumato;
- fra oggetti capovolti, cioè per un utilizzo nell’aldilà. L’oggetto capovolto (a volte spezzato) indicava la proibizione ad usare l’oggetto nel mondo dei vivi, ma la possibilità di proseguirne l’uso nel mondo dei morti;
- sugli occhi: alcune monete sono state rinvenute nel terriccio all’interno del cranio. Secondo lo scrittore latino Macrobio, il metallo era in grado di neutralizzare gli influssi negativi che potevano provenire dagli occhi. Chiudere gli occhi del morto è tutt’oggi considerato un gesto di pietà, ma anticamente era pure un atto di scongiuro affinché il morto andasse nell’aldilà, senza poter farne ritorno;
- sul torace, come dire sul cuore;
- tra la mandibola e la mascella;
- nella mano: generalmente destra, o sotto le mani incrociate sul petto (soprattutto nelle sepolture di bambini).
In caso, invece, di cremazione, i ritrovamenti di monete sono per lo più tra le ossa calcinate, in nicchie accanto all’urna o sotto gli oggetti di corredo.
In qualche caso sono state ritrovate insieme a fibbie o chiodi (il chiodo aveva valenza magica, serviva ad “inchiodare” l’anima del defunto perché non uscisse dalla tomba).
Le monete deposte nelle tombe degli imperatori erano “monete celebrative”, di “consacrazione”, tuttavia la moneta non è mai correlata allo status del defunto, si trova nelle tombe ricche come in quelle povere.
Alcune monete ritrovate in particolare nelle tombe di bambini presentavano dei fori. Questo significa che nella tomba potevano esserci i “crepitàcula”, un gioco sonoro usato dai bambini nell’antica Roma, formato da un bastoncino con un anello di ferro nel quale venivano inserite monete forate. Sulle monete erano raffigurate divinità protettrici femminili, probabilmente una scelta delle madri che volevano affidare l’anima del figlio nelle mani di una dea pietosa.
Photo Credits: https://bit.ly/immagine-Caronte
Il cimitero non è solo un luogo di silenzio e di memoria ma anche uno spazio intriso di storia, arte e cultura. Basta aver passeggiato almeno una volta per i suoi viali, aver visto statue ed epitaffi, per imparare a conoscere un popolo, le sue tradizioni, il suo folklore e le sue leggende.
Săpânţa, nella Romania settentrionale, a pochi chilometri dal confine con l’Ucraina, ospita il coloratissimo Cimitirul Vesel, una necropoli unica al mondo, una delle maggiori e curiose attrattive turistiche: si tratta di un cimitero “allegro”, da visitare come un museo.
Le tombe sono caratterizzate da una croce di legno, intagliata e di colore azzurro (da cui è nato l’azzurro di Săpânţa), benché non manchino altre tinte sgargianti, mentre sulle lapidi non ci sono epitaffi caratterizzati da parole di cordoglio ma da battute e poesie umoristiche che descrivono il defunto e ne raccontano la vita. Tutti sono in rima e alcuni davvero divertenti, sembra proprio di trovarsi di fronte a una Antologia di Spoon River.
Eccone alcuni esempi:
“Sotto questa pesante croce riposa la mia povera suocera.
Se avesse vissuto altri tre giorni
c’ero io sotto e lei sopra a leggere.
Non svegliatela altrimenti mi sgrida di nuovo.
Resta qui mia cara suocera”
“Per quanta vita nel mondo passata
me la sono sempre cavata
in Italia sono andato a lavorare
per poter i miei figli laureare.
Quando tutto si è aggiustato
una malattia via mi ha portato
facendoti arrabbiare, moglie mia Irina,
ti lascio ai figli vicina”
“Io qui riposo
mi chiamo Toador Băsu
per tutta la vita che ho passato
capre, pecore, vitelli e agnelli ho macellato
in carne e salsicce li ho trasformati
e dalle signore sono stati acquistati.
Ho lasciato la vita all’età di 61 anni”
Nel Cimitirul Vesel oggi sono presenti ottocento tombe decorate e viene visitato quotidianamente proprio come una galleria d’arte a cielo aperto.
A iniziare questa tradizione fu un contadino del villaggio, Stan Ioan Pătraș, scultore, poeta e pittore che, nel 1934, decise di realizzare lui stesso la sua futura lapide e negli anni ‘30 iniziò a scolpire e adornare le croci. L’artista realizzò centinaia di simili lapidi fino al 1977, anno in cui morì. Da allora, a inumazione avvenuta, il suo lavoro fu portato avanti dal suo apprendista, Dumitru Pop Tincu, il quale si trova spesso ancora oggi a dover fronteggiare eccessi di richieste. Molte sono le prenotazioni da parte di chi ha il desiderio di trascorrere il post mortem in questo luogo, non solo gli abitanti del paese ma anche turisti americani, tedeschi e italiani.
Il cimitero “allegro” sembra contrastare con la religione romena, per la maggioranza ortodossa. Il termine “ortodosso” implica un certo rigore, tanto che nel nostro linguaggio comune viene usato per esprimere una sorta di adesione alle regole. In realtà i romeni considerano la morte un momento molto solenne. Il cimitero è associato alla cultura degli antichi Daci, la cui filosofia si basava sull’immortalità dell’anima e sul concetto di “gioia” legata all’ultimo respiro, considerando la morte un modo per ricongiungersi a Zalmosside, il loro Dio. La morte è vista come un momento gioioso, che permette al defunto di vivere una vita migliore della precedente: da qui le insolite lapidi e decorazioni.
In Romania è tradizione vegliare il defunto per tre giorni e tre notti, perchè si crede che, se lasciato solo, possa finire in un’oltretomba triste. Per tutta la durata della veglia si mangia, si beve, si gioca a carte, si raccontano aneddoti divertenti. Dopo questo periodo, la bara, aperta e spesso caricata su carretti (macchine con il portellone aperto che si sostituiscono in alcuni casi ai carri funebri), viene portata in chiesa per la benedizione del pope (nelle chiese greco-ortodosse e soprattutto, dal 1047, in quella russa, denominazione popolare del parroco, appartenente al clero secolare). E’ la vita a essere celebrata e il cimitero di Săpânţa, con il suo originale modo di esorcizzare la morte, è diventato patrimonio mondiale dell’UNESCO.
La tomba più celebre è sicuramente quella di Dumitru Holdis, le cui miniature in legno vengono addirittura vendute come souvenir. Il suo epitaffio è il più noto, ed è riportato anche sui souvenirs: «Coloro che amano la buona grappa come me patiranno, perché io la grappa ho amato, con lei in mano sono morto». Gli epitaffi del cimitero sono tutti raccolti nel libro Le iscrizioni parlanti del cimitero di Săpânţa, scritto dal professor Bruno Mazzoni, noto romenista.
In questo luogo di sepoltura, oltre ad apprendere le storie di vita degli abitanti del villaggio, si impara, grazie all’umorismo bonario dei versi sulle lapidi, a superare con ironia la paura della morte, ad accettare i propri difetti col sorriso, e con il sorriso essere ricordati per sempre.
Paese che vai, usanze che trovi. Ogni luogo è legato ad abitudini e tradizioni locali molto radicate, comprese quelle funebri. In questo articolo ci occuperemo delle usanze funebri ai piedi dei monti.
Un tempo esisteva l’usanza di avvertire la popolazione del villaggio del trapasso di un compaesano con il suono delle campane a morto, in modo che si pregasse per l’anima del defunto.
In caso di morte di un adulto, le lancette degli orologi venivano fermate in attesa che il defunto venisse trasportato fuori dalla sua casa. Ogni lavoro doveva essere momentaneamente sospeso. Il prete si recava dal defunto accompagnato da un chierichetto, e se durante il tragitto fosse capitato di incontrare qualcuno, quest’ultimo avrebbe dovuto suonare un campanello e le persone togliersi il cappello, genuflettersi e farsi il segno della croce.
Nella “stube” (il soggiorno tipico di talune zone alpine) veniva esposto il feretro del defunto, lavato e vestito. I padroni di casa regalavano pane e sale a coloro che partecipavano al loro dolore. Inoltre, era usanza comune trascorrere una notte di veglia accanto al defunto e pregare per due notti in vicinanza del feretro. In Val Gardena tutti i presenti erano soliti bere un sorso di grappa dal medesimo bicchiere come condivisione del lutto.
A Livinallongo e a Cortina la morte di un bambino non era vissuta come un momento di lutto ma interpretata come una festa, dato che per la sua purezza gli era garantito l’accesso al Cielo. I bambini erano considerati dei mediatori con il sovrannaturale. La sera precedente la sepoltura si allestiva un banchetto per tutto il vicinato, talora si ballava e cantava. Un altro banchetto veniva poi preparato dopo il funerale per i parenti e tutti coloro che erano arrivati da lontano per presenziare alla cerimonia.
Infine, per commemorare il defunto si celebravano, a determinate ricorrenze, le “messe del trigesimo”, che si tenevano solitamente il settimo e il trentesimo giorno dopo la morte e alla fine dell’anno. I gardenesi praticavano anche una “fratellanza di messa”: era in uso stabilirla fra due amici, ovvero chi dei due fosse sopravvissuto all’altro lo avrebbe omaggiato con una messa commemorativa.
Oggi molte di queste usanze funebri si sono perse, sebbene in alcuni piccoli paesi di montagna permangano ancora diverse tradizioni locali sconosciute nelle città caratterizzate da uno stile di vita più moderno e frenetico.
In Basilicata, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, le prefiche o “piagnone” vendevano il loro pianto straziante durante la veglia del defunto, allo scopo di accentuare la tragicità della morte e, nello stesso tempo, la fragilità della vita.
Tutte vestite di nero a struggersi in lacrime, strappandosi i capelli e graffiandosi la faccia, gridando preghiere e lodi al defunto, queste “mercanti della sofferenza” rappresentavano l’eredità di un paganesimo risalente all’antico Egitto e poi diffuso nella Magna Grecia.
Gesti che non costituivano mai un’espressione di sincera disperazione, ma che rappresentavano un vero e proprio mestiere, all’interno di una terra che, avendo conosciuto nella sua lunga storia la fame più nera, aveva imparato a vendere anche le lacrime e lo strazio.
All’epoca, coloro che desideravano una celebrazione del funerale più maestosa e appariscente si impegnavano ad ingaggiare le prefiche più “quotate”, ovverò più capaci ma anche più costose. Professioniste del lutto, queste donne incarnavano la paura della morte, che i lucani di un tempo combattevano con un “rispetto reverenziale”, tanto che le lacrime erano ritenute utili ad allontanare la morte dalla comunità.
Le prefiche rappresentavano solo una parte, se pur importante, di un rito funebre che andava ben al di là della funzione religiosa: rompere i piatti per terra e tirare un secchio d’acqua non appena il feretro avesse varcato la soglia di casa erano modi per scongiurare gli “spiriti” e la sfortuna.
Dopo l’esibizione della disperazione delle prefiche, a turno, anche i parenti del defunto erano tenuti a mostrare il proprio pianto davanti al feretro, poiché il morto “si deve piangere”, anche dopo il funerale. Per mesi, infatti, gli uomini dovevano lasciarsi crescere la barba e le donne indossare vestiti neri. L’esteriorizzazione del lutto serviva a ricordare che la morte è il destino di tutti e che basta davvero poco per morire.
In quei tempi erano diffuse ignoranza e povertà e il divario tra queste ultime e il progresso tecnico-scientifico era ancora troppo grande. Non restava che pregare, e le superstizioni rappresentavano l’unico modo per interpretare gli eventi, soprattutto quelli tragici. Tutto veniva spiegato con la sfortuna e la cattiva sorte, motivo per cui ricordarsi della propria fragilità terrena era considerato il mezzo attraverso il quale rendere onore al fatidico giorno, con la speranza che arrivasse il più tardi possibile.
Oggi le prefiche ed il loro mondo fatto di paure e superstizioni non ci sono più, grazie al progresso tecnologico e culturale che ha soppiantato antichi usi e credenze. Ciononostante, tenere a mente che i giorni dell’uomo non sono infiniti può aiutare a vivere meglio.
Il remoto villaggio di Sagada è immerso nelle montagne della Cordillera Central nella parte nord di Luzon, l’isola più grande e popolata delle Filippine.
In un antico rituale, tanto inquietante quanto notevole, che si ritiene risalga a 2000 anni fa, gli igorot seppelliscono i loro morti in bare scolpite a mano, poi legate o inchiodate al lato di una scogliera e sospese in alto sul terreno sottostante. Si ritiene che questo cimitero verticale che sfida la gravità avvicini i defunti ai loro spiriti ancestrali e consenta un più facile passaggio al cielo, verso l’aldilà. La pratica permette altresì di proteggere i morti dalle inondazioni e dagli animali.
Tradizionalmente gli anziani costruiscono le proprie bare utilizzando il legno locale, dipingendo poi i loro nomi sul lato. Il cadavere viene inizialmente collocato sulla “sedia del morto”, fissato con foglie e viti e coperto con un telo. Viene deposto nella bara solo dopo essere stato affumicato per ritardarne la decomposizione, momento in cui i parenti gli rendono omaggio.
Secondo la guida Siegrid Bangyay, in passato i membri della famiglia che spostavano il cadavere dalla “sedia del morto” alla bara avrebbero dovuto romperne le ossa per poterlo sistemare in posizione fetale. Oggi le bare sospese tendono a essere più grandi e lunghe, circa due metri. E’ come tornare da dove sei venuto, in posizione fetale nell’utero ha spiegato Bangyay.
Gli uomini conficcano dei pioli di metallo nella parete rocciosa per sospendere la bara nel suo ultimo luogo di riposo; nel frattempo il cadavere viene avvolto con foglie di rattan, una palma rampicante. La bara viene sollevata sul promontorio solo dopo che le persone in lutto hanno lasciato che i fluidi del cadavere in decomposizione gocciolassero sui loro corpi, data la credenza che questa pratica porterà loro fortuna.
Mentre il rituale funebre degli igorot è unico nelle Filippine, il rito delle bare sospese ai dirupi è stato storicamente praticato in Cina e in Indonesia. Secondo Bangyay l’ultima sepoltura sospesa è avvenuta nel 2010.
Negli ultimi anni un nugolo di viaggiatori interessati ha iniziato il pellegrinaggio al cimitero verticale di Sagada: i turisti possono osservare le bare da una certa distanza, non devono toccarle nè camminare nelle loro vicinanze, ma possono munirsi di un binocolo o di una macchina fotografica che li aiuti ad ammirarle da lontano. Ironia della sorte, questo cimitero verticale si è trasformato in una fonte di lucroso sostentamento per gli igorot.
La stessa Bangyay crede fermamente che un giorno la tradizione riprenderà, e spera di entrare nell’aldilà trasformandosi, come lei stessa afferma, “da guida ad attrazione turistica”.