In Basilicata, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, le prefiche o “piagnone” vendevano il loro pianto straziante durante la veglia del defunto, allo scopo di accentuare la tragicità della morte e, nello stesso tempo, la fragilità della vita.
Tutte vestite di nero a struggersi in lacrime, strappandosi i capelli e graffiandosi la faccia, gridando preghiere e lodi al defunto, queste “mercanti della sofferenza” rappresentavano l’eredità di un paganesimo risalente all’antico Egitto e poi diffuso nella Magna Grecia.
Gesti che non costituivano mai un’espressione di sincera disperazione, ma che rappresentavano un vero e proprio mestiere, all’interno di una terra che, avendo conosciuto nella sua lunga storia la fame più nera, aveva imparato a vendere anche le lacrime e lo strazio.
All’epoca, coloro che desideravano una celebrazione del funerale più maestosa e appariscente si impegnavano ad ingaggiare le prefiche più “quotate”, ovverò più capaci ma anche più costose. Professioniste del lutto, queste donne incarnavano la paura della morte, che i lucani di un tempo combattevano con un “rispetto reverenziale”, tanto che le lacrime erano ritenute utili ad allontanare la morte dalla comunità.
Le prefiche rappresentavano solo una parte, se pur importante, di un rito funebre che andava ben al di là della funzione religiosa: rompere i piatti per terra e tirare un secchio d’acqua non appena il feretro avesse varcato la soglia di casa erano modi per scongiurare gli “spiriti” e la sfortuna.
Dopo l’esibizione della disperazione delle prefiche, a turno, anche i parenti del defunto erano tenuti a mostrare il proprio pianto davanti al feretro, poiché il morto “si deve piangere”, anche dopo il funerale. Per mesi, infatti, gli uomini dovevano lasciarsi crescere la barba e le donne indossare vestiti neri. L’esteriorizzazione del lutto serviva a ricordare che la morte è il destino di tutti e che basta davvero poco per morire.
In quei tempi erano diffuse ignoranza e povertà e il divario tra queste ultime e il progresso tecnico-scientifico era ancora troppo grande. Non restava che pregare, e le superstizioni rappresentavano l’unico modo per interpretare gli eventi, soprattutto quelli tragici. Tutto veniva spiegato con la sfortuna e la cattiva sorte, motivo per cui ricordarsi della propria fragilità terrena era considerato il mezzo attraverso il quale rendere onore al fatidico giorno, con la speranza che arrivasse il più tardi possibile.
Oggi le prefiche ed il loro mondo fatto di paure e superstizioni non ci sono più, grazie al progresso tecnologico e culturale che ha soppiantato antichi usi e credenze. Ciononostante, tenere a mente che i giorni dell’uomo non sono infiniti può aiutare a vivere meglio.